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Writer's pictureRoberta Curiazi

Il gusto di mangiare italiano a Quito

La cucina italiana, è da sempre sinonimo di eccellenza e genuinità in tutto il mondo e, per questo, tra le più apprezzate a livello internazionale.


Roberta Curiazi, Docente ricercatore e membro del CEDEA - Centro Studi per lo Sviluppo e l’Economía Applicata della Facoltà Latinoamericana di Scienze Sociali - FLACSO Ecuador.

La cucina italiana, anche conosciuta come “dieta mediterranea”, è da sempre sinonimo di eccellenza e genuinità in tutto il mondo e, per questo, tra le più apprezzate a livello internazionale. I piatti di questa tradizione, frutto di secoli di storia e di ricette tramandate nelle famiglie di generazione in generazione, sono letteralmente centinaia e ogni regione del paese ne possiede una vasta gamma. La popolarità di certi cibi, piatti e bevande come la pizza margherita, la pasta alla carbonara, la cotoletta alla milanese, il tiramisù, il vino, insieme ai celebri formaggi, ai salumi, ecc., è indiscussa a livello mondiale e ha trasformato la tradizione culinaria italiana in un’industria poderosa e molto varia, fatta di cose semplici e buone della tradizione casalinga e casereccia.


Un sondaggio pubblicato su Theguardian.com ha decretato i 12 cibi più apprezzati in tutto il mondo e, anche in questa circostanza, la cultura gastronomica italiana si è rivelata “protagonista indiscussa”, come ci ricorda Antonina Vetrano in un suo articolo di quest’anno. Nella classifica troviamo pizza, riso e pasta, tra cui le lasagne, il più antico formato di pasta prodotto in Italia, del quale si ha traccia già in epoca greco-romana.




La gastronomia italiana ai tempi del Covid

Un’analisi condotta da Coldiretti durante i primi sette mesi dell’emergenza Covid dimostra come nel 2020 la pandemia abbia fatto crescere le esportazioni dell’agroalimentare Made in Italy di un +3,5% a fronte di riduzioni in tutti gli altri settori (ad eccezione di quello medico-farmaceutico), che ha portato la filiera agroalimentare italiana a contabilizzare 538 miliardi, divenendo la prima ricchezza del Belpaese e confermando la sua importanza come settore strategico anche in tempi difficili come questi. Con 740.000 aziende agricole, 70.000 industrie alimentari, oltre 330.000 realtà di ristorazione e 230.000 punti di vendita al dettaglio, l’agroalimentare italiano si articola su una rete diffusa lungo tutto il territorio, che va dalle campagne italiane al piatto. L’Italia è ad oggi titolare di ben 305 specialità Dop/Igp/Stg riconosciute a livello comunitario, lista che comprende formaggi, salumi e prosciutti, tra i tanti altri prodotti e materie prime, a cui si aggiungono 415 vini Doc/Docg (con 504 varietà iscritte al registro viti) e 5.155 prodotti tradizionali regionali censiti lungo la Penisola. Inoltre l’Italia detiene la leadership nella produzione biologica e anche nella conservazione della biodiversità, con oltre 60.000 aziende agricole biologiche, e il primato della sicurezza alimentare mondiale con il minor numero di prodotti agroalimentari con residui chimici irregolari. Infine, l’Italia si distingue per essere il primo produttore nell’Unione Europea di riso, grano duro e vino, ma anche di molte verdure e ortaggi tipici della dieta mediterranea, come pomodori, melanzane, carciofi, cicoria fresca, indivie, sedano e finocchi, primeggiando anche nella produzione di frutta (mele e pere fresche, ciliegie alle uve da tavola, kiwi, nocciole, castagne, ecc.).



L’eterna condanna: la contraffazione dell’agroalimentare Made in Italy

La cucina italiana è apprezzata in tutto il mondo, cosa risaputa e confermata dalla massiccia presenza di ristoranti ed esercizi di ristorazione in tanti paesi, ricchi di locali che propongono piatti della gastronomia italiana. Molto spesso, infatti, gli italiani che decidono di emigrare trovano un primo lavoro proprio nel settore della ristorazione e, altrettanto spesso, da queste prime esperienze nascono poi iniziative individuali legate sempre al settore, che vanno ad arricchire l’offerta locale. Altrettanto spesso, però, la cucina italiana all’estero stenta anche solo ad avvicinarsi a quella originale e, in generale, ciò a cui si assiste è il ristorante che conserva (o si attribuisce) un nome che richiama a origini italiane, ma proponendo piatti rivisitati sulla base delle abitudini alimentari del posto o addirittura completamente stravolti nel nome, nella presentazione e anche nella sostanza.


Secondo un’indagine realizzata dalla Coldiretti nel 2017, la contraffazione del Made in Italy nel mondo conta con un fatturato di oltre 60 miliardi di euro, quasi tre volte il valore delle esportazioni originali: solo un alimento italiano su cinque esportato all’estero è DOC e ben due Made in Italy su tre in commercio sono falsi o contraffatti. Made in Italy, nell’alimentare, significa rispondere contemporaneamente a quattro qualità fondamentali: semplicità, salubrità, gusto e qualità. A questo proposito, l’Accademia Italiana della Cucina ha condotto nel 2017 una ricerca sulla gastronomia italiana all’estero, coinvolgendo 73 delegazioni in oltre 40 paesi. Ciò che emerge, oltre ai tanti casi di contraffazione, è anche come vengano male interpretate e snaturate le ricette italiane. Inoltre, nel primo quadrimestre del 2017, l’Ispettorato Centrale della Tutela Qualità e Repressione Frodi (Icqrf) del Ministero delle Politiche Agricole italiano parlava del sequestro di prodotti alimentari per un valore di 59,3 milioni di euro, mentre nello stesso periodo del 2016, un articolo di Maurizio Tropeano su “La Stampa” riportava il valore dei prodotti sottratti all’agro-pirateria, che ammontava a 3,29 milioni di euro. Il dato tuttavia più preoccupante è la crescita esponenziale della contraffazione delle materie prime italiane, che ha permesso a prodotti non italiani (né come materia prima né come fattura) di impossessarsi di fette di mercato del Made in Italy, come nel caso del parmigiano tedesco, della mozzarella australiana, del gorgonzola statunitense o del Combozola tedesco, della fontina danese e svedese, del Chianti cileno o il Chianti clonato nella Napa Valley in California, dell’amaro Venezia prodotto in Germania, che vuole imitare il famoso Amaretto di Saronno lombardo, dei vari e fasulli prosciutti San Daniele che si incontrano nel mondo, ma anche delle imitazioni del parmigiano reggiano e del grana padano (contraffatti col nome di “parmesan”) o del pecorino romano, prodotto nell’Illinois (USA) con latte di mucca invece che di pecora, della pancetta, della coppa e del “prosciutto Busseto” Made in California, dei falsi salami Toscano, Milano e della soppressata calabra, fino ai paradossi della contraffazione dei pomodori pelati San Marzano con i “grown-domestically in the Usa” e i pomodorini di collina cinesi, o del Pompeian Olive Oil, prodotto nel Maryland e in nessun modo legato al territorio dei famosi scavi italiani, e infine dell’olio Romulo, diffuso in Spagna con un’etichetta che raffigura una lupa che allatta i gemelli capitolini. Inoltre, nel 60% dei casi vengono stravolte le versioni autentiche delle ricette, contraffatte da chef estranei alla tradizione italiana: quasi la metà dei cuochi che cucinano cibo italiano all’estero non è di origine italiana e solo il 9% di questi ha seguito stages o tirocini nel Belpaese.


Il piatto più contraffatto e piratato rimane la pizza, seguita da lasagne, pasta al ragù e dal tiramisù. Poi esistono gli “ibridi”, prodotto di una spesso troppo azzardata commistione di sapori locali e tradizioni estere: in praticamente tutta l’America Latina, per esempio, i piatti a base di carne o di pesce sono serviti con un contorno di pasta, mentre in Olanda si può trovare il “pesce al forno col pesto”. Per non parlare, poi, degli abusi realizzati a livello di condimenti e spezie, come besciamella, aglio e cipolla, che usati in quantità eccessive “ammazzano” i sapori invece che esaltarli, uno dei principi fondamentali della cucina tradizionale italiana.



La cucina italiana nelle Americhe

Le peregrinazioni della cucina italiana nel mondo hanno quasi sempre seguito le dinamiche delle ondate migratorie degli italiani. Paesi stranieri come gli Stati Uniti o diversi Stati dell’America Latina sono stati bacini ricettori di una massiccia emigrazione dall’Italia durante il secolo scorso e in tempi anche anteriori. Il proliferare di esercizi commerciali di ogni sorta e natura (ristoranti, pizzerie, pasticcerie, panetterie, bar, caffetterie, gelaterie, ecc.), che offrono piatti e bevande della enograstronomia italiana, ne è la diretta conseguenza. Tuttavia, spesso, ci si scontra con realtà che, a ben vedere, di italiano hanno davvero molto poco, con storpiature non solo a livello di nomi dei piatti e delle bevande, ma anche e soprattutto in termini di contenuti, preparazione e presentazione. La lunga lista di piatti che vengono presentati come italiani, ma che nulla hanno a che fare con la vera tradizione italiana, va dalla “parmigiana al pollo” alla “pasta pollo con parmesan” alla “pizza pepperoni” o a quella “hawaiana” (con ananas), per arrivare ai famigerati e improbabili “spaghetti alla bolognese” fino ai “classici” spaghetti meat-balls (spaghetti con le polpette) o alla “pasta/fettuccina Alfredo”, al “Chicken Alfredo” o al “Garlic Bread”. Di fatto, questo genere di ricette e, in generale, la “pirateria agroalimentare ed enograstronomica” che imperversa a danno della cucina italiana, ne “cannibalizzano” l’immagine all’estero, consolidando nell’opinione pubblica internazionale certi luoghi comuni che nulla hanno a che vedere con la vera tradizione italiana.


Anche nel caso del Sud America, come del Nord America (Stati Uniti e Canada), si incontrano alcuni tra gli esempi più emblematici dell’influenza culinaria italiana oltre frontiera. La Grande Emigrazione tra il 1860 e il 1930 circa, e la seconda ondata migratoria europea a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, videro tanti italiani partire per le Americhe portando con sé un bagaglio di speranze ma anche di tradizioni che, nel tempo, si sono radicate su questi territori. Paesi di accoglienza come l’Argentina, il Brasile e altri ancora, seppur in misura minore, sono diventati anch’essi delle “focine” di riproduzione delle tradizioni enograstronomiche italiane, riadattate al territorio. I menù argentini includono sempre pasta, pizza, cotoletta di vitello alla milanese (carne di vitello impanata con parmigiano, farina e pangrattato), parmigiano, gnocchi e perfino la polenta. Anche il Brasile, dipendendo soprattutto dallo stato federato, propone un po’ ovunque piatti della gastronomia italiana. Negli altri paesi del Sud America l’influenza italiana è meno evidente; tuttavia in Venezuela, Colombia, Ecuador, Perù e Cile alcune ricette italiane di base sono sempre presenti, oltre a tanti esercizi ristorativi, non tutti genuinamente italiani, che propongono atmosfere, sapori e odori tipici della cultura gastronomica italiana.


La storia antica e moderna dell’immigrazione italiana in Ecuador L’Ecuador è un paese in cui esiste una piccola ma molto attiva comunità di italiani che, come nel resto dell'America Latina, si è diffusa su tutto il territorio nazionale fin da tempi antichi.

Secondo l'Istituto Nazionale di Statistica italiano, nel 2009 vivevano in Ecuador 14.286 cittadini italiani, mentre il censimento pubblicato dallo stesso Istituto nel 2010 mostrava un totale di 19.843, divenuti più di 21.000 nel 2012. Ma già all'inizio del XVII secolo si hanno notizie di italiani che vivevano in territorio andino. Tra il 1593 e il 1603, come ricorda il Professor Guarnieri Calò Carducci nella sua opera del 2001, nella Regia Corte di Quito vivevano almeno otto italiani: tre veneziani, due sabaudi, due genovesi e un napoletano. In quegli anni arrivarono in Ecuador anche diversi scienziati, naturalisti ed esploratori di origine italiana, tra i quali: Girolamo Benzoni, il primo italiano di cui si registra il transito a Guayaquil e che, una volta tornato in Italia, raccontò i suoi viaggi nel libro "La Storia del Mondo Nuovo", pubblicato a Venezia nel 1565; un sacerdote gesuita, autore della Descrizione storico-fisica della Provincia di Quito che, pubblicata nel 1770, è la prima opera geografica sul territorio ecuadoriano; un italiano che arrivò a Guayaquil nel 1790 all'età di 34 anni e condusse importanti studi sulla fauna e la flora locali; un altro che arrivò a Guayaquil nel 1847 e decise di intraprendere un viaggio attraversando il Rio delle Amazzoni e che, al suo ritorno in Italia nel 1850, pubblicò il libro "Esplorazione delle regioni equatoriali lungo il Napo e il fiume delle Amazzoni"; e infine un altro studioso naturalista, arrivato in Ecuador nel 1895 per esplorare la flora e la fauna del Paese e che, tornato in Italia, pubblicò nel 1909 l'opera "Nel Darien e nell'Ecuador". Diario di viaggio di un naturalista".


Alcuni autori auterovoli, tra cui Riccardo Descalzi, Fernando Noboa Jurado, Carlos Valverde Romero, Jenny Estrada e lo stesso Luigi Guarnieri Calò Carducci ci forniscono informazioni approfondite riguardo le vicende migratorie dell’epoca. Nel 1855 gli italiani presenti in Ecuador erano già più di 100 e il flusso migratorio continuò a crescere in modo esponenziale fino alla fine del XIX secolo: si stima che nel 1884 in Ecuador vivessero circa 650 italiani, di cui più di 500 nella città di Guayaquil, e solo 22 a Quito nel 1887. Nel 1887 arrivò in Ecuador il primo gruppo di salesiani, composto da 9 religiosi del Nord Italia, i primi salesiani a stabilirsi in America Latina sotto i precetti di Don Bosco, fondatore dell’Ordine. Essi diressero e riformarono l'organizzazione del carcere di Quito e contribuirono a redimere gli allora detenuti insegnando loro un mestiere specifico. Inoltre fondarono a Quito un istituto religioso con annessa scuola di arti e mestieri, per poi, nel 1890, stabilirsi anche a Riobamba e, nel 1893, a Cuenca, con il compito di creare centri per la formazione degli operai e l'educazione dei bambini. Nello stesso anno vennero istituite anche le missioni di Méndez e Gualaquiza in Amazzonia. Nel 1896 il Governo liberale del generale Eloy Alfaro decise di espellere tutti i vescovi e i sacerdoti stranieri dall’Ecuador, abolì la censura ecclesiastica sulla stampa, eliminò i privilegi del clero, chiuse i conventi e confiscò i beni di tutti i religiosi, che furono espulsi dal Paese adducendo come motivazione l’aver favorito la fazione dei conservatori, contro i quali il Generale aveva vinto durante la sua "rivoluzione liberale", iniziata nel 1895. Nel 1901 i religiosi italiani tornarono in Ecuador e si stabilirono a Guayaquil, e il Governo dell'Ecuador fu condannato a restituire i beni sequestrati e a pagare al clero i danni subiti.


I primi italiani laici a stabilizzarsi in Ecuador furono un gruppo di una ventina di mercanti liguri provenienti dal Canale di Panama, aperto nel 1914, i quali si imbarcarono dal porto di Genova nel XIX secolo e arrivarono a Guayaquil, sulla costa dell'Ecuador dopo aver attraversato Argentina, Cile e Perù, e decidendo di fermarsi nella regione costiera del Paese per le condizioni climatiche più gradevoli; altri andarono a vivere nelle città di Cuenca, Ambato e Guaranda, nella parte andina, dove si dedicarono al commercio, mentre gli italiani stabilitisi a Ibarra e nel Nord del Paese si dedicarono all'allevamento e all'agricoltura. Due terzi di questi italiani che si avventurarono verso le terre sudamericane con i flussi migratori a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento erano marinai, piccoli mercanti e abitanti delle regioni rurali, prevalentemente uomini liguri di Genova, Santa Margherita Ligure, Rapallo, Tiglieto, Sanremo e Deiva. Accanto ai Liguri c'era un flusso numericamente inferiore proveniente dalla Campania (Napoli e Secondigliano) e altri dalle regioni della Basilicata, della Calabria e della Sicilia. Gli immigrati italiani che erano dei piccoli mercanti in patria, e anche gli stessi mainai, si dedicarono al commercio anche in Ecuador con attività legate al porto della città di Guayaquil: all'epoca l'attività caratteristica degli italiani erano le famose “pulperías”, piccoli empori dove si poteva trovare ogni tipo di merce, come ricorda la studiosa Jenny Estrada. Alcuni italiani si dedicarono invece alla coltivazione su larga scala, al commercio e all'esportazione, in particolare di fibre di cacao, verso il mercato mondiale (cognomi Parodi, Segale), ma anche di tagua, caffè e kapok, una fibra di cotone, detta anche miraguano o ovatta tessile, che viene estratta dall'albero di Ceiba e utilizzata come imbottitura per materassi, cuscini, tappezzeria, bambole, giubbotti di salvataggio e dispositivi simili, e anche per l'isolamento; in cambio, ci dice Guarnieri Calò Carducci, inviavano in Ecuador olii, vini, medicinali, marmo, carta, tappi e macchinari. Altri immigrati italiani erano coinvolti nel trasporto di legname dalla provincia di Esmeraldas e vi erano anche alcune famiglie dedite alla lavorazione della pasta (cognomi Mortola De Bernardi, Segale-Norero, Valdano) e dei pan di spagna o alla formazione delle prime case commerciali che lavoravano con prodotti di importazione (cognomi Caputi, Vignolo, Parducci).


La terza corrente migratoria dell'epoca era costituita da un piccolo nucleo di operai e muratori arrivati in Ecuador tra il 1902 e il 1908 e convocati per la costruzione della linea ferroviaria Guayaquil, la Ferrovia del Sud, conosciuta anche come "la ferrovia più difficile del mondo", la cui costruzione iniziò nel 1872, durante la seconda presidenza di Gabriel García Moreno, per ovviare ai quindici-trenta giorni di viaggio che erano allora necessari per raggiungere Quito dalla costa del paese. La ferrovia arrivò a Quito per la prima volta il 25 giugno 1908. Prima della Prima Guerra Mondiale, in Ecuador esisteva una piccola colonia di italiani, perfettamente integrata con la cultura locale: 700 in totale, di cui 400 risiedevano a Guayaquil dediti principalmente al commercio tra Ecuador e Europa. Insieme alla presenza degli spagnoli, gli italiani cominciarono a sviluppare diverse attività sulla costa e nel Nord e nel Sud del Paese. A Guayaquil crearono piccole imprese che poi crebbero fino a diventare importanti importatori di vino, liquori e farina di grano, quest'ultima materia prima per la produzione di pasta e biscotti. Nell'Ecuador di fine Ottocento, dove l'industria alimentare era quasi sconosciuta e dove le abitudini alimentari e di consumo non erano cambiate molto dall'epoca coloniale, le novità portate in tavola dagli italiani cominciarono a trasformare radicalmente il gusto e l’interesse per i nuovi sapori e, con essi, la vita dell'alta e media borghesia delle grandi città. Queste piccole imprese familiari si trasformarono presto in fiorenti fabbricche di biscotti e spaghetti con decine di lavoratori, rimanendo tuttavia punti d'incontro per gli altri italiani: luoghi in cui chiacchierare tranquillamente, accompagnando il tutto con una brocca di vino, sempre presente, che aiutava a mantenere vivo il piacere del socializzare evocando con fare sentimentale e nostalgico la patria lontana.


Correnti di pensiero all’epoca favorevoli all'arrivo di immigrati europei e americani, sostennero questo processo migratorio con l'obiettivo ultimo di rispondere alle esigenze per promuoverne lo sviluppo industriale e la modernizzazione del Paese. Il 1906 è un anno chiave per le migrazioni nel paese andino, favorite dall'abolizione della norma costituzionale che limitava l'immigrazione alle persone appartenenti al culto cattolico. Di conseguenza, negli anni successivi, già in epoca fascista, gli immigrati italiani ebrei o valdesi poterono entrare liberamente in Ecuador. L'immigrazione straniera non rifiutò il lavoro manuale, fortemente stigmatizzato dalle élite locali, e finì piuttosto per rivolgersi a settori del mercato del lavoro non ancora sviluppati in Ecuador, generando attività nuove e nuovi servizi a beneficio delle comunità locali e dei territori.


Lo stesso anno venne realizzato il primo censimento della popolazione dell'era repubblicana nella città di Quito: erano residenti nella città 85 italiani, 61 spagnoli, 61 francesi e 43 tedeschi. Su una mappa di Quito dell'epoca si può vedere come gli italiani vivessero principalmente nelle zone commerciali che comprendevano le strade Guayaquil, Junín, Venezuela, Olmedo, Chile ed Esmeraldas (la città, all'inizio del XX secolo, copriva l'area compresa tra l'attuale centro storico e il parco La Alameda), nell’attuale centro storico della capitale. Tuttavia la presenza italiana a Quito rimase piuttosto stabile (circa 100 persone) tra il 1830 e il 1934; al contrario, nel 1899 gli immigrati a Guayaquil erano 9.368 e costituivano già il 15% della popolazione urbana, come ricorda il Professor Ronn Pineo.


Nel periodo di transizione tra il 1917 e il 1939 l'immigrazione italiana inizia a crescere in modo esponenziale e a diversificare le sue destinazioni all'interno del territorio ecuadoriano. Oltre ai Salesiani, altri religiosi italiani, i Giuseppini, salparono per la terra andina e arrivarono in Ecuador nel 1922, dove si stabilirono nella quasi inesplorata regione amazzonica del fiume Napo. Nei primi anni di attività mapparono l'intera regione amazzonica e inviarono la mappa all'Istituto Geografico De Agostini, facendo conoscere per la prima volta all'uomo occidentale i popoli Enos, Cofanes e Shuar (i famosi guerrieri “tagliatori di teste”, pratica conosciuta come tzantza). Nella città di Tena costruirono una chiesa e un osservatorio meteorologico e, nel 1929, installarono una dinamo per produrre luce attraverso la corrente elettrica e una radio per contattare gli altri Giuseppini che vivevano nella città di Ambato; e, nelle città di Tena e Archidona, si occuparono dell'educazione dei bambini indigeni, dei poveri e degli indigeni, e inaugurarono anche alcune infermerie in quei luoghi. Nel 1928 i Giuseppini erano quattordici, dodici dei quali italiani, e tra di loro possedevano cinque case, come ricorda il Professor Guarnieri Calò Carducci. Salesiani e Giuseppini erano però accompagnati anche da altre confraternite religiose: i cambogiani, le suore Dorotee e le monache di Santa Maria Ausiliatrice, guidate dall'italiano Don Bosco. Nel 1928 erano 18 le suore della comunità di Santa Maria Ausiliatrice, di cui 15 italiane, che si occupavano dell'educazione delle giovani donne nei quartieri meno abbienti e che successivamente fondarono diverse scuole e collegi di prestigio nel Paese. La Professoressa Chiara Pagnotta afferma che in questo periodo, tra il 1921 e il 1941, durante il regime fascista, i rapporti tra l'America Latina e l'Italia si rafforzarono ed estesero e, di conseguenza, crebbero le iniziative commerciali dei migranti italiani, favorite dalla capacità di importare ed esportare, e cominciarono anche i primi meccanismi di ricongiungimento familiare, tipici delle catene migratorie. Nel 1920 veniva costruito il malecón di Guayaquil prendendo a modello il "lungomare" di alcune città italiane e, nello stesso anno, gli italiani di Guayaquil fondarono "La Previsora", una banca che raccoglieva i risparmi di 70 immigrati di provenienza italiana. Questa entità pose le basi per la creazione del “Banco Italiano”, inaugurato nel 1923, che durante il periodo bellico, nel 1941, cambiò la sua denominazione in “Banco Nacional del Ecuador” e che, in seguito, prese il nome definitivo di “Banco de Guayaquil”, un istituto bancario di grande prestigio, ancora oggi operante nel paese. L'anno successivo, nel 1921, la Compagnia Italiana di Edificazione Milano decise di inviare a Guayaquil alcuni costruttori, artisti e decoratori italiani per la costruzione di diversi edifici pubblici e molti di coloro che vi arrivarono finirono per fermarsi a vivere nella città costiera. Ma anche la presenza italiana nella città di Quito aumenta costantemente: 198 emigranti italiani entrarono nella capitale, sebbene questa volta si trattasse di un'immigrazione atipica e altamente specializzata per l'epoca, che coinvolgeva soprattutto studiosi di origine ebrea, poiché l'entrata in vigore delle leggi razziali del 1938 proibiva agli ebrei di svolgere il loro ruolo di insegnanti nelle università, come anche di lavorare nella pubblica amministrazione e nelle aziende private di natura pubblica limitando, più in generale, l'esercizio di qualsiasi professione intellettuale. Nel 1939 giunse così nella capitale ecuadoriana un piccolo nucleo di ebrei italiani, altamente qualificati e con un alto capitale sociale e culturale: professionisti come architetti, ingegneri, tecnici, musicisti, medici, ecc.


Il Governo ecuadoriano voleva fondare un'industria farmaceutica nazionale, ma mancavano le competenze per rendere operativo il progetto; il gruppo di ebrei italiani fornì quindi le capacità scientifiche e il capitale per realizzarlo, fondando la società LIFE (Laboratorio Farmacéutico Ecuatoriano), la più famosa industria farmaceutica nazionale. Queste persone molto istruite diventarono la forza trainante del processo di sviluppo dell’Ecuador, fungendo da richiamo, nel corso degli anni, per altri colleghi e amici dall'Italia (e anche dall'Argentina) e offrendo loro la possibilità di fuggire dall’Italia fascista. All’epoca, nel 1924, giunse in Ecuador anche la nave chiamata “Italia”, sponsorizzata tra gli altri da Gabriele D'Annunzio, con lo scopo di diffondere cultura e prodotti-campione dell'industria, dell'agricoltura, delle miniere e dell'arte italiana, con un equipaggio di 700 persone tra uomini d'affari, giornalisti, pittori e politici. La Missione Militare Italiana in Ecuador rimase a lungo nel Paese con il compito di addestrare l'esercito ecuadoriano in tattica, strategia, logistica e nell'uso delle armi automatiche; contemporaneamente, molti ufficiali ecuadoriani vennero addestrati nelle scuole militari italiane e a Quito fu creato il Círculo Deportivo Ítalo-Ecuatoriano, dove si insegnava la lotta greco-romana, la scherma e il pugilato, come riporta Guarnieri Calò Carducci. L'esercito italiano creò anche la Scuola di Aviazione Ecuadoriana e, nel 1923, alcuni piloti italiani che parteciparono alla prima guerra mondiale si trasferirono in Ecuador per diventare istruttori di volo. Tra questi, il Professor Paolo Soave cita Elia Liut, soprannominato il "Condor delle Ande", che effettuò il primo volo andino tra Guayaquil e Cuenca e, successivamente, diresse la Scuola di Aviazione Ecuadoriana. Ma, se nel 1936 la comunità italiana era composta da 1.600 persone, nel 1940 si ridusse a circa 1.000. Questa riduzione fu dovuta in parte al fatto che molti italiani vennero espulsi negli Stati Uniti in quanto accusati di far parte del movimento fascista, con beni confiscati e conti bancari congelati; altri si trasferirono in altri paesi dell'America Latina, anche perché fino al 1950 non esistettero in Ecuador le condizioni socio-economiche necessarie per generare ricchezza. Inoltre, in quegli anni non era consigliato né consigliabile investire in imprese ecuadoriane per via dei molti rischi legati ai frequenti sconvolgimenti politici interni, per cui gli italiani preferirono piuttosto creare piccole industrie e generare legami familiari e lavorativi con gli ecuadoriani.


Terminata la Seconda Guerra Mondiale riprese un vigoroso flusso migratorio di italiani verso l'Ecuador, un'immigrazione caratterizzata da tecnici specializzati diretti principalmente a Quito, sede delle principali aziende del Paese. In questo caso non si trattava più di una migrazione composta da settori medi e medio-bassi, come all'inizio dell'Ottocento, né di un'immigrazione intellettuale come quella ebraica del 1938-1940, ma di un flusso composto da settori medi. Nel 1950 la comunità italiana era la terza più importante del Paese; nel contesto storico che l'Ecuador viveva e tenendo conto del basso flusso migratorio verso i paesi andini, le 884 persone che conformarono la comunità italiana in quel momento assunsero un peso importante (INEC, 1950).


Le relazioni diplomatiche tra Italia ed Ecuador migliorarono e, negli anni Ottanta, l'Ecuador divenne il principale paese latinoamericano a beneficiare degli aiuti offerti dalla politica di cooperazione italiana: nel 1982 venne perfezionato l'accordo di cooperazione economica, industriale e tecnica tra i due paesi (firmato nel 1978) e, negli anni successivi, vennero realizzate imponenti opere pubbliche (costruzione di piccoli ospedali nelle zone rurali, costruzione della centrale termoelettrica di Esmeraldas e della diga sul fiume Paute, che fornisce agli abitanti del Paese la maggior parte dell'energia elettrica disponibile sul territorio) e si incrementò l'aiuto di organizzazioni non governative, religiose e laiche per la realizzazione di progetti di sviluppo e di assistenza sociale. Guarnieri Calò Carducci ricorda che nel 1984 erano presenti in Ecuador più di trenta organizzazioni italiane e più di cento volontari italiani.


Le dinamiche migratorie dal Vecchio Continente cambieranno di nuovo dal 2007, quando inizia la presidenza dell'economista Rafael Correa, il cui Governo lanciò un progetto chiamato "Revolución Ciudadana", che mirava a modernizzare il paese attraverso grandi opere pubbliche e una significativa trasformazione delle condizioni di vita dei cittadini, con la riduzione dei tassi di disoccupazione e sottoccupazione, maggiori investimenti pubblici nell'istruzione e nella sanità, la riduzione dell'analfabetismo e del lavoro minorile, tra le altre azioni, raggiungendo una crescita stabile del 4,2% mantenuta nel periodo 2007 - 2013. Per questo motivo si comincia a richiedere immigrazione qualificata e aumenta la domanda di professionisti per entrare in settori come l'istruzione, la ricerca scientifica e la salute, tra gli altri. Programmi come "Prometeo", attivati in quel periodo, avevano lo scopo di rafforzare la ricerca, l'insegnamento e il trasferimento di conoscenze in aree specialistiche, attraverso il coinvolgimento di ricercatori stranieri e di ecuadoriani residenti all'estero, che in quegli anni cominciarono ad arrivare massicciamente, soprattutto dall'Europa e dall'America Latina, tra i quali anche tanti italiani. A causa della crisi economica mondiale del 2008, diversi posti di lavoro hanno cominciato a chiudersi negli anni successivi e molti italiani residenti nel Paese sono tornati in Italia o sono emigrati in altri paesi dell'America Latina, mentre altri ancora sono rimasti per insegnare la lingua italiana in enti pubblici o privati o aprendo una propria attività, come ristoranti, pizzerie, bar, gelaterie, tra gli altri. Nel 2013 l'Ecuador manteneva ancora la ventesima posizione tra i luoghi privilegiati per i migranti italiani, secondo le informazioni presentate nel Rapporto Italiani nel Mondo – 2013, da cui il proliferare di ristoranti ed esercizi enograstronomici italiani, che nell’ultimo decennio si sono diffusi a raggiera sul territorio della capitale e di altre città più o meno importanti del Paese.



Mangiare italiano a Quito: cosa cercare e cosa aspettarsi

Nel tempo, i sapori della cucina italiana sono stati ricreati anche in Ecuador. A Quito sono molti gli italiani che oggi promuovono la loro cultura gastronomica nei ristoranti e in altre tipologie di esercizi nella capitale. Secondo l'AIRE, al 31/12/2017 vivevano nel Paese 18.245 italiani, la maggior parte dei quali nelle città di Quito e a Guayaquil, il porto commerciale più importante. Alcuni di loro, di seconda o terza generazione, nati e vissuti sempre in Ecuador, hanno ereditato le proprie conoscenze gastronomiche dai genitori e dai nonni immigrati, mentre altri, immigrati di nuova geberazione, hanno cercato di ricreare in loco ciò che non c’era.


Qui, come in altri luoghi, tra tutti i piatti che compongono la cucina italiana la pizza è quella che meglio si è adattata ai gusti culinari locali, provocando però non poche distorsioni nella preparazione di questo piatto: oggi non è affatto raro provare una pizza con carne, pollo o frutta (ananas e fragole) o con la commistione di certi ingredienti che non verrebbero mai “accoppiati” nella vera cucina italiana. A fronte della difficoltà di reperire localmente la materia prima originale necessaria per la preparazione delle proprie ricette come nel loro paese natale, molti chef, soprattutto quelli non italiani DOC, hanno dovuto sicuramente ovviare in modo creativo, ma anche talvolta azzardato, a certe mancanze. Ci riferiamo a prodotti integranti la dieta italiana e parte importante di tanti piatti, come le olive tipiche del clima mediterraneo, gli insaccati come il salame piccante (molto amato in Ecuador), il prosciutto o la mortadella, i pomodori pelati in scatola o la polpa di pomodoro, la mozzarella di bufala tipica del Sud d’Italia, oltre al gorgonzola, al parmigiano, alla burrata e al pecorino di buona qualità. Tutti questi ingredienti devono essere importati dall'estero o acquistati da aziende importatrici o da aziende locali costituite da italiani, che hanno iniziato a produrre ciò che non era disponibile sul territorio. Per quanto riguarda invece le bevande, è tipico che un piatto italiano si accompagni e abbini a un buon vino o all'acqua: in Italia nessuno immaginerebbe o accetterebbe di mangiare una tagliatella al ragù sorseggiando un succo di frutta o una “gaseosa”; ma in Ecuador, sì, succede spesso anche questo.


Esistono delle regole in linea con la cultura gastronomica italiana dalle quali un ristorante italiano vero non può e non deve prescindere: carne e verdure sono quasi sempre accompagnate da vino rosso, mentre il pesce da vini bianchi, che meglio ne esaltano il sapore; e, tanto i primi piatti quanto i secondi, si comportano secondo questo stesso criterio, ahimè troppo spesso messo da parte per non opporsi alle richieste di clienti che cercano il pasto italiano ma, il più delle volte, ignorano completamente certe “finezze” e perfino cosa significa realmente “mangiare italiano”. Se la pizza si sposa bene con una birra o una Coca-Cola, non vale altrettanto per una gran parte dei piatti italiani, fedelmente legati al vino e a certe “vibrazioni di palato” irrinunciabili. Non vi è comunque dubbio sul fatto che anche i palati ecuadoriani amino la cucina italiana, considerata una delle più versatili, semplici e leggere, e molto gradevoli al palato per l’uso moderato di spezie e del piccante. Tuttavia, anche qui come altrove, insieme alle tante attività ristorative italiane hanno proliferato esercizi che propongono gastronomia italiana ma senza condividerne le origini e il sapere. Non di rado si tratta di latini che hanno vissuto qualche tempo in Italia o che hanno lavorato in esercizi ristorativi italiani per un periodo e, al rientro in patria, decidono di aprire una propria attività sfruttando le conoscenze acquisite sul tema, ma con in genere scarsi risultati in termini di corretta e buona riproduzione delle stesse. Allo stesso modo si incontrano spesso casi di “maltrattamento e storpiatura” della tradizione gastronomica italiana, sotto vari punti di vista: dal povero cappuccino, che si trova preparato in qualsiasi modo (fino a ridursi a un semplice e scialbo “café con leche”) e che presenta una varietà di “nomi” (capucino, capuchino, cappuchino, cappucchino, capuccino, capucchino, kapuchino, leche, ecc.) e di forme di presentazione improbabili (come il cappuccino a tre strati e tre colori…), all’altrettanto bastonata “pizza alla diavola”, una margherita con aggiunta di salame piccante e olio piccante (con o senza basilico), conosciuta in Ecuador e in altri paesi latinoamericani come “pizza pepperoni” (con incluso l'errore di ortografia della doppia “p"), quando invece in Italia il “peperone” è il “pimentón” della lingua castigliana, ingrediente peraltro non previsto in questo tipo di pizza. Ma l’amore e l’interesse per questa cultura culinaria hanno fatto sì che nel novembre del 2019 si tenesse anche a Quito, così come in altri paesi del mondo, la IV edizione della Settimana della Cucina Italiana nel Mondo, un progetto a scala globale che ha visto il supporto di quasi 300 sedi diplomatiche-consolari e degli Istituti Italiani di Cultura all’estero, coordinati dalla Direzione Generale per la Promozione del Sistema Paese della Farnesina (Ministero degli Esteri italiano). Il progetto era mirato a promuovere la cucina italiana di qualità e i prodotti agroalimentari Made in Italy, con oltre 1000 appuntamenti programmati tra cui seminari e conferenze, incontri con chef e corsi di cucina, degustazioni e cene evento, proiezioni cinematografiche, mostre e concerti.


Oggigiorno, se ci viene voglia di mangiare italiano a Quito, il motore di ricerca Tripadvisor, selezionando i filtri “ristorante/pizzeria/gelateria/

pasticceria/panetteria/italiano/Quito”, dà questo risultato: su circa 194 esercizi che risultano proporre cucina o cibi e bevande italiani, solo 86 risultano essere autenticamente italiani. Tra questi, tre sono stati aperti e gestiti da italiani per molti anni, per poi essere rilevati da gente del posto che, pur conservando il nome originario, dimostra però una certa difficoltà a conservare anche la tradizione gastronomica di origine. Nella “Top 20” dei ristoranti-trattorie-pizzerie italiani più amati a Quito, alcuni dei quali offrono anche gelateria e pasticceria, figurano la trattoria Via Lugo, il ristorante La Briciola, il ristorante-pizzeria Bocatto da Fiorentino, il Café San Blas (ristorante non gestito da italiani), il ristorante Carmine Gastronomia & Arte, la trattoria-pizzeria Cosa Nostra, il ristorante-pìzzeria Romolo e Remo, il ristorante Al Mercato, la pizzeria Al Forno, la Panadería Reina de la Paz, il ristorante-pizzeria Incontro, la Strada Ristorante, la caffetteria-gelateria-ristorante-pizzeria Di Serggio, il ristorante-pizzeria Via Partenope, la Trattoria Pizzeria Napoli, la pizzeria Bocanada, il Ristorante Pizzeria Rincón Belmonte, il ristorante Pavarotti, la pizzeria Quito Pizza Co. (che non è italiana, ma in stile “pizza newyorkese”), il ristorante-pizzeria Nosé. In questi luoghi, generalmente sobri e accoglienti, con un arredamento che richiama molto la tipica trattoria italiana e l’ambiente caldo familiare, i proprietari, originari di varie parti d’Italia, hanno cercato, spesso con risultati gradevoli agli occhi e al palato, di ricreare gli ambienti, i profumi, gli odori, i suoni e soprattutto i sapori della tipica cultura gastronomica italiana e mediterranea, arricchendo la tradizione di sempre con proposte capaci di sposare il meglio dell’”italianità” con il gusto ecuadoriano. Non è raro inoltre che, quando si entra in questi ristoranti, pizzerie o trattorie sia lo stesso proprietario a riceverti e a consigliarti e guidarti nella scelta del menù e delle bevande da accompagnare ai piatti selezionati, come richiederebbe lo stile di accoglienza italiano.


Sedersi a tavola ed essere ricevuti come “ospiti in casa propria”, significa per un ristoratore italiano offrire al proprio cliente il trattamento che si riserverebbe a un familiare o a un amico; e questo perché il momento della consumazione del pasto, per un italiano, non è mai solo inghiottire cibarie, ma condividere un momento, che deve essere conviviale, rilassante e piacevole allo stesso tempo, e vissuto in un ambiente gradevole e che “fa tanto casa”. In almeno tre casi, tra gli esercizi menzionati la qualità dell’offerta in termini di produzione della materia prima, preparazione e presentazione dei piatti, rapporto qualità-quantità-prezzo e bontà e genuinità dei piatti (quasi sempre preparati a mano e sul momento) si è tradotta nella creazione di piccole catene di ristoranti e pizzerie italiane, che si sono sviluppati sul territorio locale, all’interno della capitale, in vari quartieri di Quito. Anche in tempi di crisi questi luoghi hanno continuato a lavorare alacremente, contando su una buona, talvolta buonissima affluenza di persone (spesso è necessaria la prenotazione) e divenendo dei punti di riferimento consolidati su un territorio sempre più esigente e competitivo dal punto di vista gastronomico.


Per la sua semplicità, i suoi sapori mediterranei e il suo lato marcatamente popolare, la cucina italiana si è affermata ovunque nel mondo, dando spazio all’occhio e al gusto, e soddisfacendo palati in ogni dove. Anche a Quito, come altrove, l’arrivo della pandemia, unitasi alla già grave situazione economica in cui versa il Paese, hanno generato grandi e gravi problemi a queste attività, rendendo necessarie misure e risposte urgenti per contenere il danno. Solo il post-pandemia ci dirà quante di esse sono riuscite a sopravvivere e quante avranno dimostrato di continuare a proporsi in modo creativo e innovativo, ma rimanendo fedeli alla tradizione, come è stato dall’inizio di questa lunga storia di amore e commistione tra gusti, colori e sapori del Belpaese e dell’incantevole Ecuador.




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